IL SISTEMA DELLE AUTONOMIE
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IL SISTEMA DELLE AUTONOMIE

IL SISTEMA DELLE AUTONOMIE

Il sistema delle Autonomie è stato al centro del dibattito politico degli ultimi 20 anni.

Se esaminiamo i tentativi per delineare un nuovo sistema delle autonomie, un unico esprit sembra sotteso: rendere il sistema razionale partendo da argomenti del tipo: “i comuni sono troppi e con pochi abitanti; le province sono tante e di dubbia utilità, le regioni sono molte e hanno molti poteri di interdizione”.

Non riteniamo, invero, che l’innovazione del sistema delle Autonomie possa prendere le mosse da tale analisi.

In Italia i comuni sono circa 8.000 ed il 70% ha meno di 5.000 abitanti. Una situazione simile a quella della Germania, che ha circa 12.000 Comuni dei quali l’84% sono minori, alla Spagna che ha circa lo stesso numero di comuni dell’Italia, alla Francia che ha 36.700 Comuni dei quali quelli con meno di 5.000 abitanti sono il 95%. 

L’Italia, quindi, non presenta alcuna anomalia nel contesto internazionale.

I piccoli comuni, peraltro, hanno resistito ad una pressione secolare diretta a riportarli ad un ordine dimensionale razionale: per ragioni sia legate alla morfologia territoriale sia ad un legittimo campanilismo. 

Insomma: i comuni si riconoscono, non si creano. 

Il sistema delle autonomie, invece, si rende più efficiente se si differenzia la disciplina che si applica nei diversi territori: la differenziazione è lo scopo dell’autonomia. 

Se fossimo tutti uguali l’autonomia non servirebbe. Una riforma delle autonomie può innovare realmente il sistema se premia le differenze, nel senso di lasciarle sviluppare.

Un sistema ben governato, infatti, non può prescindere da un’efficiente sistema di autonomie in quanto sarebbe un sistema incapace di vedere e trattare i problemi delle comunità. 

Che il sistema delle autonomie funzioni a dovere non è un lusso che si può sacrificare per esigenze di bilancio (come erroneamente pensano alcuni), ma è il presupposto che condiziona l’efficienza e l’efficacia dell’azione del Governo stesso. 

Il Governo sarebbe il primo a giovarsi di un sistema delle autonomie coerente e ben funzionante, in quanto il successo delle sue politiche dipende in larga parte dall’efficienza dei soggetti che sono chiamati ad attuarle.

Se questo è vero la disciplina delle autonomie non può che fondarsi sul principio di sussidiarietà.

Un principio, introdotto nel 2001 con la riforma dell’articolo 119 che, per dirla con le parole di Marcello Cecchetti, è una riforma che vive in uno stato di quiescenza in quanto resa inattuata da una sentenza della Corte Costituzionale che ha evidenziato la necessità che lo Stato coordini prima le norme tributarie.

Principio di sussidiarietà che non è un criterio per allocare le funzioni amministrative ma un principio di buon governo. 

I servizi alla persona non possono essere opportunamente organizzati da lontano, così come le infrastrutture dei trasporti e delle comunicazioni non possono essere progettate da troppo vicino. 

Le leggi Bassanini avevano indicato la via da seguire delineando un possibile mutamento del ruolo dello Stato; che non pretende più di modellare la mappa dei poteri locali ma si limita a fissare gli obiettivi e a controllare i risultati. 

Era una via appena tratteggiata, ma subito abbandonata.

Un nuovo sistema delle autonomie non passa solo per le riforme costituzionali, quanto piuttosto per la riforma della politica. 

In tal senso è illuminante l’esperienza britannica della devolution alla Scozia.

Lo Scotland Act 1998 contiene pagine e pagine che entrano nel dettaglio delle competenze, soprattutto di quelle mantenute al governo centrale, e descrivono nei particolari i singoli meccanismi. Il Ministro, tuttavia, presentando in Parlamento il progetto disse espressamente che quello che vi era scritto non sarebbe stato sufficiente a regolare i rapporti tra Regno Unito e Scozia, e che sarebbe stato necessario stringere continui accordi politici sulla gestione della devolution.

La Sewel Convention attuò questo impegno regolando questa procedura di accordo. 

Come le vicende britanniche insegnano, quindi, è la politica che governa questi processi non la burocrazia.

Il sistema funziona se la politica si preoccupa delle politiche pubbliche senza delegare gli apparati burocratici e se si rafforzano le sedi e gli strumenti della cooperazione tra istituzioni, nello sforzo comune di perseguire obiettivi politici importanti.

La via d’uscita come sempre è la democrazia, che non è solo regola; è innanzitutto conflitto; meglio: è la regola che risolve il conflitto.

Va da sé, comunque, che per quanto si studi qualche nuovo meccanismo costituzionale pensando di raggiungere un risultato evidente, si deve convenire che i risultati reali che si ottengono sono sempre sostanzialmente divergenti dalle intenzioni. 

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